testo critico di Claudio Mussso

HEMO-core

Il Graffitismo, fin dalle sue origini, si basa su un intrinseco bisogno di auto affermazione.

Per un writer scrivere il proprio nome sui muri è parte integrante di una rigida disciplina di demarcazione di un territorio.

Il supporto utilizzato dai graffitisti è la città intera, un’unica grande galleria pronta ad ospitare opere che nascono e vengono prodotte per essere necessariamente site specific.

Il segni lasciati sui muri, come li aveva identificati Jean Baudrillard in un suo famoso saggio, riportano la forma verbale, la scrittura appunto, alla sua radice etimologica (skar; scalfire, graffiare), compiendo un ritorno al passato, prima dell’avvento della stampa a caratteri mobili e le sue successive evoluzioni, tornando verso la pratica amanuense.

La firma, o meglio la tag, è il primigenio contatto tra il writer e lo spazio urbano.

E’ il primo ambiente di incontro/scontro tra l’idea, il progetto e la sua realizzazione.

La tag è veloce, chiusa, perfetta, sempre uguale e sempre diversa. Per Hemo è un pretesto, un oggetto di studio, un modulo cromatico/compositivo alla base di ogni opera.

Condizione necessaria e imperativo categorico per ogni writer è la costruzione di un alfabeto proprio, la ricerca di uno stile unico e riconoscibile, pena l’indifferenza dello sguardo o peggio la confusione con altri stili simili e appiattiti.

Attraverso indagini intraverbali, intralinguistiche Hemo ha sviluppato un tratto estremamente “calligrafico” (si intenda: di affascinanante purezza formale) che dal muro si sposta e contamina ogni supporto che accolga l’aerosol della bomboletta spray. La parola Hemo è divenuta un virus che contagia qualsiasi cosa tocchi.

Il suo percorso analitico - empirico come quello di uno scienziato - consta di fasi ben distinte: individuazione dell’oggetto d’analisi; elaborazione formale e studio progettuale; sviluppo del motivo decorativo; moltiplicazione seriale.

Non è un caso che si scelga di apparentare la ricerca artistica di Hemo a quella scientifica: da un lato, infatti, come ogni writer anche il nostro dirige sulle lettere il suo microscopio, analizza il font alla stregua di una forma di vita; dall’altro la caratteristica peculiare del suo stile è quella di animare le lettere come se fossero dotate di un vitalismo biomorfico.

Gli elementi che compongono le singole lettere, vittime di una gestualità aperta e centrifuga, rifuggono gli incastri precisi dell’estetica funzionalista, si ribellano alla dittatura dell’angolo retto. Linee curve e sinusoidali si agitano tra le lettere ‘H’, ‘E’, ‘M’ e ‘O’ come nei vetrini dei laboratori di microbiologia. L’instabilità sostituisce la rigidità, un morbo affligge i caratteri tipografici standard, seminando in essi un processo di osmosi tipico delle forme naturali.

I riferimenti storici corrono alla stagione simbolista, a quel biomorfismo che in pittura come in scultura, in architettura come nel design, si infiltrava decretando un successo che ancora oggi è vivo e ritorna sottoforma di vintage e cultura retrò.

Nelle opere di Hemo, quegli organismi macro cellulari, ricchi di liquidi placentari e tessuti epidermici, ricordano quelli contenuti nelle opere di Joan Mirò o quelli rappresentati nelle decorazioni di Antoni Gaudì.

È il riscatto dell’universo subcellulare, plasmatico e citoplasmatico, che si impone sulla costante meccanomorfa e si definisce come la via, personale e originale, per riedificare un alfabeto nuovo.

Le lettere, come soggetto preferito nei dipinti, vengono rappresentate come cellule in evoluzione, collegate fra loro e con lo spazio circostante da flagelli o pili, le strutture proteiche che protrudono dalla superficie.

I graffiti nella New York degli anni ’70 risentivano nella foggia della diffusione degli stilemi Pop. I colori sgargianti, le influenze delle comics strip, un mondo popolato di oggetti di consumo, la televisione e gli stereotipi che ne derivano.

L’esplosione dei colori per Hemo corrisponde alla proliferazione di strutture modulari che si incastrano l’una nell’altra fino a comporre tessuti epiteliali. Non si tratta più di infierire sulla standardizzazione dei caratteri tipografici, piegandoli e avvolgendoli rendendoli non leggibili, piuttosto si assiste ad una nuova genesi che vira verso la creazione di un habitat ricco di fermenti. Senza rinunciare alle relazioni con la cultura di massa, verso un più contemporaneo BioPop.

Pur non sapendo a che cosa si riferisca di preciso il nome ‘Hemo’, la sua redice etimologica rimanda inevitabilmente al sangue o ciò che riguarda il liquido ematico.

Le composizioni dell’artista bergamasco spesso sembrano mimare gli ordinati sistemi di costruzione di orditi, proprio come se le lettere fossero degli organici mattoni con cui comporre la figura finale, mai del tutto chiusa, sempre in fase di definizione.

L’elaborazione di unità discrete che si incastrano, come i cromosomi a comporre il DNA, creano campiture uniformi, nelle quali le particelle sembrano unirsi secondo una sequenza prestabilita, seguendo un ritmo musicale. È un effetto speciale utilizzato dall’artista che lascia intendere, anche a lavoro finito, quale sia stata la metodologia di composizione. Un processo in fieri bloccato nell’attimo in cui tutto ancora si sta muovendo. Ad un’occhiata più attenta e ravvicinata è possibile distinguere le singole tessere di questi mosaici pittorici, composti e ricomposti in uno stretto e duplice rapporto: quello viscerale dei piccoli elementi di base e quello superficiale con il supporto che abitano. Una pacifica convivenza, un ornamento attivo che si è emancipato, evitando il delitto della mera decorazione, attraverso uno scambio simbiotico introverso ed estroverso.